Riflettendo sulla fotografia, mi ritrovo spesso a pensare a una frase che ho sentito innumerevoli volte: “Una volta non si faceva post-produzione”. Questa affermazione, che mi arriva all’orecchio ogni volta che parlo di editing fotografico o condivido i miei lavori editati, mi ha spesso fatto riflettere sulla natura mutevole della nostra arte.
Immagino che qualche volta anche tu, appassionato di fotografia, hai avuto esperienze simili. Forse ti sei trovato a discutere con qualcuno che guarda al passato con nostalgia, insistendo sul fatto che “una volta era diverso”. Oppure sei proprio tu che la pensi in questo modo.
In questo articolo, vorrei approfondire questo tema che tocca molti di noi.
Il primo punto che desidero esplorare è proprio questo concetto che la post-produzione “una volta non veniva fatta”. La realtà, come spesso accade, è più sfumata. È vero che l’editing analogico era diverso, ma non meno artistico, invasivo o impegnativo.
Il secondo punto riguarda il ruolo attuale della post-produzione. Oggi, grazie ai progressi tecnologici, abbiamo a disposizione strumenti che i nostri predecessori potevano solo sognare. Questa evoluzione ha ampliato enormemente le nostre possibilità creative. Tuttavia, porta con sé anche nuove sfide e responsabilità. Come utilizziamo questi strumenti? Come possiamo fare in modo che arricchiscano, piuttosto che distorcere, la nostra visione artistica?
Infine, terzo punto, vorrei condividere con te una riflessione personale su come “noi” dovremmo vivere la post-produzione nella fotografia. Non si tratta di imporre regole o limiti, ma di comprendere come questa fase del processo creativo possa diventare un’estensione della nostra espressione artistica.
Spero che queste riflessioni possano risuonare con le tue esperienze e stimolare un dialogo costruttivo. La fotografia è un viaggio continuo di apprendimento e crescita, e ogni fase, compresa la post-produzione, è un capitolo essenziale di questa avventura artistica.
CAPITOLO #1: Ti racconto una storia
Spesso, ascoltando i racconti dei fotografi più anziani, mi imbattevo in un’affermazione che mi incuriosiva sempre di più: una volta, dicevano, non esisteva la post-produzione. Ma era davvero così?Questo interrogativo, simile a un eco persistente, ha iniziato a riecheggiare nella mia mente, spronandomi a intraprendere un viaggio alla scoperta delle antiche tecniche fotografiche.
La mia avventura ha avuto inizio nell’era digitale, un mondo in cui ogni immagine può essere trasformata con un clic. Tuttavia, il fascino dell’ignoto mi ha spinto a esplorare il mondo analogico. Così, con una miscela di entusiasmo e rispetto per il passato, ho iniziato a costruire il mio ponte verso l’era della fotografia analogica.
Ho investito in due gioielli della fotografia: una Rolleiflex Biottica e una Hasselblad CM500. Con queste macchine, sentivo di avere tra le mani non solo strumenti, ma veri e propri pezzi di storia. Poi, ho acquistato negativi ILFORD FP4, prodotti chimici e tutto l’occorrente per lo sviluppo, immergendomi in un mondo dove ogni scatto era un atto ponderato, e ogni sviluppo, un’arte.
La mia curiosità non si è fermata qui. Ho deciso di esplorare anche il mondo delle diapositive. Questo processo, considerato dai puristi il formato neutro per eccellenza, è stato per me una rivelazione. Ho scoperto che, contrariamente a quanto molti credono, l’analogico offre ampie possibilità di manipolazione, sia in fase di sviluppo del negativo che del positivo.
Ma la vera magia, ho imparato, avviene durante la stampa. Parlando con il grande fotografo Renato D’Agostin, ho scoperto che la stampa è il palcoscenico dove la fotografia analogica danza tra ombre e luci, rivelandosi in tutta la sua espressività.
La mia esperienza mi ha insegnato una lezione fondamentale: la scelta della pellicola, un gesto che precede perfino lo scatto, è in realtà il primo passo nella creazione di un’immagine. Ogni pellicola ha la sua voce, il suo modo di interpretare il mondo in termini di colori, resa e gamma dinamica.
Questo viaggio nella fotografia analogica non è stato solo un percorso di apprendimento tecnico; è stata una profonda immersione nella storia, un dialogo intimo con il passato che ha arricchito il mio modo di vedere e vivere la fotografia.
Capitolo uno: concluso. Un capitolo che ha aperto gli occhi su un mondo dove ogni fotografia è un racconto, ogni pellicola una scelta stilistica, e ogni stampa un’opera d’arte.
CAPITOLO 2: Cos’è la post-produzione oggi
In un mondo dove l’arte della fotografia si è trasformata radicalmente, l’editing delle immagini è diventato una magia accessibile a tutti. Questo cambiamento, così radicale rispetto al passato, apre le porte a una riflessione profonda sull’evoluzione della fotografia.
Ricordi i tempi in cui sviluppare un negativo era un’arte che richiedeva non solo spazio fisico, ma anche un sapere quasi esoterico? Erano momenti in cui ogni immagine catturata si trasformava in un viaggio mistico attraverso il buio della camera oscura, un luogo dove la luce era un ospite raro e prezioso. Ora, invece, il digitale ha reso tutto più immediato, trasformando ogni computer o smartphone in una potente camera oscura virtuale.
Per i veri appassionati, quelli che amano perdersi nei dettagli, ci sono strumenti come Lightroom o Photoshop. Questi programmi sono come bisturi digitali, capaci di incidere ogni pixel con precisione chirurgica. Ma per chi preferisce un viaggio più semplice e spontaneo, ci sono soluzioni come Luminar NEO, che con un tocco magico trasformano le immagini in opere molto interessanti ed efficaci.
E qui sorge la domanda: questa facilità è un bene o un male? Può chi usa software automatici essere considerato meno fotografo di chi sceglie la strada più impegnativa? Io credo di no.
La fotografia, fin dai suoi albori, è sempre stata una danza tra tecnica e sentimento, indipendentemente dal metodo scelto. Maestri come Ansel Adams trasformavano la camera oscura in un laboratorio creativo, usando tecniche di manipolazione quali cartoncini e maschere per plasmare le loro immagini come se fossero sculture di luce
Da sinistra. Nelle prime due immagini Ansel Adams in persona mentre maschera con dei cartoncini la carta sensibile in fase di stampa. Nella terza foto uno dei strumenti da lui realizzati usato per mascherare in modo selettivo zone della carta sensibile. In pratica Ansel Adams stava usando la tecnica “Dodge & Burn” caratteristica di Photoshop 10 anni prima della sua creazione. Se vuoi vedere il video completo clicca qui.
Lui sapeva come piegare le ombre e plasmare i raggi luminosi, come un origamista che crea forme dalla carta. Questo spirito, questa passione per l’immagine, è ciò che conta davvero.
Il cuore della fotografia non risiede nei mezzi usati, ma nell’intento e nell’emozione che l’artista vuole trasmettere.
Ogni immagine è un racconto, un frammento di mondo visto attraverso gli occhi di chi sta dietro l’obiettivo. Che sia un viaggio lungo ore in camera oscura o un click in un’app, ogni foto è una finestra sul cuore del suo creatore.
Nella nostra era digitale, abbiamo la fortuna di avere infinite possibilità per raccontare queste storie visive. E in fondo, non è questo il vero spirito della fotografia?
Qui sotto un video dove applico la tecnica del “Dodge & Burn” con Adobe Lightroom, emulando in pratica quello che faceva Ansel Adams.
CAPITOLO 3: Come vivere la post-produzione oggi
Immaginatevi in una camera oscura, illuminati solo dalla luce rossa. Qui, nel silenzio, si svolge la magia della fotografia analogica. Ogni immagine è il frutto di un processo lento e meditativo: il rivelatore che scorre sulla carta fotografica, rivelando gradualmente un’immagine che prima esisteva solo nella mente del fotografo. Questo è il mondo della post-produzione analogica, un luogo dove pazienza e precisione sono essenziali, e dove ogni scatto è un’opera d’arte unica e irripetibile.
Contrastiamo questa immagine con il mondo della fotografia digitale.
Qui, il fotografo lavora davanti a uno schermo luminoso, con un’infinità di strumenti a portata di clic. La post-produzione diventa un campo di infinite possibilità creative, dove colori e luci possono essere modificati in un istante, e gli errori possono essere facilmente corretti. La rapidità e la flessibilità del digitale permettono una sperimentazione senza precedenti, ma possono anche portare a una sensazione di distacco dal processo fotografico fisico e tangibile.
Entrambi questi mondi, così diversi eppure uniti dalla stessa passione per l’immagine, rappresentano due facce della stessa medaglia.
La post-produzione analogica richiede un approccio riflessivo e una connessione profonda con il materiale fisico, insegnando il valore della singolarità e dell’imperfezione. Al contrario, la post-produzione digitale offre la libertà di esplorare e modificare, spingendo i limiti della creatività.
Come amanti della fotografia, possiamo trovare valore in entrambi questi approcci.
Immaginate di poter combinare la riflessività e l’unicità dell’analogico con la flessibilità e l’innovazione del digitale. Questa fusione può portare a un nuovo modo di vedere e creare immagini, un percorso che rispetta la tradizione ma abbraccia anche il futuro.
Con questa comprensione, possiamo iniziare a vedere non una divisione, ma una possibilità di arricchimento reciproco e di crescita nell’arte della fotografia.